SCHOK INPUT
venerdì 11 marzo 2011
Terremoto e tsunami, colpito il Giappone Nuove scosse a Joetsu e nel nord-ovest
MILANO - Un terremoto di 8,9 gradi (poi alzato a 9) ha colpito venerdì alle 14,46 (erano le 6,46 in Italia) la parte nord-orientale dell'isola Honshu, la più grande del Giappone, a 380 km da Tokyo. Pochi minuti dopo uno tsunami con onde alte più di dieci metri si è abbattuto sulle coste affacciate sul Pacifico seminando morte e distruzione nell'area di Sendai, la più vicina all'epicentro.
ALTRE ZONE SISMICHE - Ma alle 19,59 ora italiana (le 3,59 di sabato ora locale) è stato registrato un sisma di 6,2 gradi Richter in una zona completamente diversa: presso Joetsu sulla costa ovest, superficiale (1o km di profondità). Il sisma ha provfocato frane e valanghe a Tokamachi, zona montagnosa a 50 km da Nagano e Morioka dove nel 1998 vennero disputate le Olimpiadi invernali. Alle 20,47 sisma di 6,6 gradi in una terza zona: nel mar del Giappone a nord-ovest di Honshu sempre a 10 km di profondità. Alle 20,25 c'era stata una scossa di 5,5 gradi a soli 80 km da Tokyo, a conferma dello spostamento degli epicentri delle scosse di assestamento verso sud-ovest, più vicino alla capitale.
DATI - Il terremoto di 9 gradi è il più violento in Giappone da quando esistono le rilevazioni sismiche e il quarto più forte al mondo dell'ultimo secolo. Il bilancio ufficiale delle vittime parla finora di 378 morti e 584 dispersi, oltre a 950 feriti, ma purtroppo sembra destinato ad alzarsi di molto. Grazie alle costruzioni antisismiche obbligatorie in tutto il Giappone, i crolli non sono stati numerosi, la gran parte delle vittime e dei danni è stata causata dallo tsunami. Solo su una spiaggia di Sendai sono stati trovati 300 corpi. Una nave con un centinaio di persone a bordo è stata travolta, mentre quattro treni sono dati per dispersi: uno si trovava vicino alla stazione di Nobiru dove si è abbattuta un'onda di dieci metri, il secondo è scomparso nella prefettura di Iwate. Anche gli altri due di cui si sono perse le tracce stavano viaggiando lungo la costa orientale.
CROLLA DIGA - La diga di Fujinuma nella prefettura di Fukushima si è rotta riversando l'acqua a valle che ha spazzato via l'intera città di Sukagawa. Lo riferisce l'agenzia Kyodo, numerose persone vengono date per disperse.
NUOVE SCOSSE - Il capo di gabinetto del governo giapponese, Yukio Edano, ha chiesto alla popolazione di tenersi pronta ad affrontare altre scosse di assestamento e tsunami violenti, assicurando che la situazione nelle centrali nucleari era sotto controllo, ma in seguito è giunta la notizia di una possibile fuoriuscita radioattiva controllata dalla centrale di Fukushima 1.
LE COMUNICAZIONI - A Tokyo, a 370 km di distanza dall'epicentro, i crolli sono stati limitati, ma anche nella capitale si contano i morti. Molte persone hanno riportato lesioni in seguito ai crolli. Sempre nella capitale è stato chiuso l'aeroporto di Narita. Uno dei principali aeroporti di Tokyo, quello di Ibaraki che si trova 80 chilometri a nord-est della capitale, è stato chiuso a seguito del cedimento di un'ampia parte del tetto. Alcuni treni e metropolitane hanno ripreso a funzionare solo alle 17,30 italiane, quando a Tokyo era passata l'1 di notte. Nella raffineria di Ichihara si è sviluppato un incendio, nel porto si sono innescati almeno sei focolai. L'antenna della Tokyo Tower, il simbolo della capitale nipponica e della ricostruzione post-bellica, si è piegata a causa delle scosse. La rete di telefonia cellulare è saltata, e anche le comunicazioni telefoniche attraverso le linee fisse sono molto difficili, ha resistito però l'infrastruttura Internet, tramite la quale la gente continua a scambiarsi informazioni in tempo reale. Le fornitura di energia elettrica è saltata in un'ampia parte dell'area di Tokyo: 4,4 milioni di abitazioni sono rimaste senza luce. Un'onda ha anche inondato l'enorme parcheggio del parco divertimenti di Disneyland.
SENDAI - Le immagini e le notizie più impressionanti arrivano dalla zona di Sendai, dove vivono circa 1 milione di persone, area nella quale si è abbattuta la più forte onda di maremoto. L'acqua si è spinta fino a 5 chilometri all'interno, quando si è ritirata sono rimasti su una spiaggia da 200 a 300 corpi. La pista dell'aeroporto è stata invasa dalle acque. Case e magazzini sono in fiamme in vaste aree di Kesennuma (70 mila abitanti), vicino a Sendai. «Il porto è un mare di fiamme», ha riferito un cronista locale. Il porto di Miyagi si è riempito di carcasse di veicoli trascinati via dalla furia del mare. Una grande esplosione è avvenuta in un complesso petrolchimico a Shiogama, un sobborgo nei pressi di Sendai. Immagini diffuse dalla televisione mostrano fiamme alte decine di metri che avvolgono l'impianto.
SOCCORSI - I danni sono stati subito definiti «considerevoli» dal governo nipponico, il quale per prima cosa ha assicurato che non ci sono state fughe di radiottività dalle centrali atomiche. Il primo ministro Naoto Kan ha costituito un'unità per affrontare l'emergenza. Il capo del governo nipponico ha espresso le più «profonde condoglianze a chi sta soffrendo le conseguenze» di questo «fortissimo terremoto» e ha chiesto alla popolazione di continuare a seguire le indicazioni trasmesse televisivamente con tranquillità. Il ministero della Difesa si appresta a mobilitare 300 aerei e 40 navi per i soccorsi. Il presidente americano Barack Obama ha annunciato che, oltre alla portaerei che già si trova nelle vicinanze del Giappone, ne ha inviato un'altra per aiuti. Il ministro degli Esteri giapponese, Takeaki Matsumoto, ha dato disposizioni alla struttura diplomatica di accettare aiuti internazionali. Sono 38 le nazioni del mondo che hanno immediatamente offerto aiuto e solidarietà al Giappone. Anche l'Onu ha annunciato che trenta squadre di soccorso sono pronte a partire. L'ambasciatore italiano a Tokyo, Vincenzo Petrone, ha reso noto che «non ci sono notizie di italiani coinvolti a Tokyo e non ci sono stranieri interessati dallo tsunami a Sendai». Tokyo, ha assicurato il diplomatico, «è tranquilla». Stanno tutti bene i 311 componenti dell'orchestra e dello staff del Maggio Musicale Fiorentino che si trovano dagli inizi di marzo a Tokyo per una lunga tournée. Alitalia ha riprogrammato a sabato i voli Roma-Tokyo e Milano-Tokyo.
LE SCOSSE - La prima scossa di 9 gradi della scala Richter è avvenuta alle 14,46 locali (le 6,46 in Italia) con epicentro a una profondità di 32 km situato a 130 km a est di Sendai e a 180 km dalle centrali atomiche di Fukushima, ed è stata seguita da decine di scosse di assestamento, quattro delle quali di oltre 6,5 gradi e dodici tra 6 e 6,5 gradi. Dal momento della scossa principale, c'è stato un terremoto di almeno 5 gradi in media ogni 5-7 minuti. La costa nordorientale del Giappone sul Pacifico in passato è stata colpita da terremoti e tsunami e un sisma di magnitudo 7,2 si era verificato mercoledì, seguito da una serie di scosse nella stessa area dove si è verificato il sisma devastante dell'11 marzo. Si pensava che queste scosse avessero scaricato l'enorme energia che si era accumulata nella subduzione della zolla pacifica sotto l'arco-isola del Giappone, invece evidentemente ha attivato una parte della faglia che si è rotta provocando il terremoto di 8,9 gradi. Nel 1933, un sisma di magnitudo 8,1 nella zona provocò la morte di oltre 3 mila persone. La scossa dell'11 marzo è stata la più potente mai registrata nel Sol Levante. Le onde sismiche sono state avvertite distintamente fino a Pechino.
MERCATI - Subito dopo la scossa lo yen ha iniziato a perdere terreno contro il dollaro, arrivando fino a 83,30 da 82,74 prima del sisma. Lo yen ha perso terreno anche contro l'euro a 115,01 da 114,35. Il cross euro-dollaro è a 1,3815. La borsa di Tokyo ha chiuso in forte ribasso. L'indice Nikkei ha lasciato sul terreno l'1,72% a 10.254,43 punti. L'indice aveva comunque già aperto in ribasso dell'1,30%, scendendo sotto quota 10.300 per la prima volta dal 1° febbraio, minato dall'instabilità politica in Medio Oriente.
Redazione online
11 marzo 2011(ultima modifica: 16 marzo 2011)
tratto da http://www.corriere.it/esteri/11_marzo_11/giappone-terremoto-allarme-tsunami_5c077c42-4ba6-11e0-b2c2-62530996aa7c.shtml
martedì 10 agosto 2010
The Climate is Changing! Il Clima sta Cambiando!
È raro che il linguaggio figurato si possa tradurre da una lingua all’altra: generalmente un’espressione idiomatica è confinata in una sola lingua. Il titolo scelto per la mostra che accompagnerà Feltrosa 2010 è una felice eccezione. In italiano, come in inglese, dire che il clima cambia equivale a dire che tutto ciò che è stato vero in passato non lo è più, che è necessario rinnovare e cambiare abitudini, atteggiamenti e punti di vista.
Ne consegue un intenso dibattito portato avanti a colpi d’arte, un’arte fatta di materiali semplici ed ecologici, raffinata, di denuncia che pone l’attenzione sui problemi della standardizzazione come risultato della produzione di massa e sul suo impatto inquinante. Quali sono le risposte date dagli artisti che espongono in questo contesto? Lo chiediamo a Eva Basile, fondatrice di Feltrosa, che da oltre 30 anni si occupa di tessitura e di feltro.
continuahttp://www.atlantidezine.it/il-clima-sta-cambiando.html
METEO PADOVA
martedì 26 gennaio 2010
NO ALLA PENA DI MORTE
La pena di morte nel mondo
La pena di morte nel mondo dal 1970 ad oggi
1970 1997 Oggi (*)
Abolizionisti DE IURE
16 64 93
Abolizionisti ORDINARI
24 13 10
Abolizionisti DE FACTO
15 38 38
Totale abolizionisti
55 115 141
MANTENITORI
143 83 56
(*) Fonte :
United Nations - Moratoriums on the use of the death penalty
Report of the Secretary-General -August 2008
Paesi abolizionisti e mantenitori
Fonte: Amnesty International
Abolizionisti DE IURE
Albania, Andorra, Angola, Argentina, Armenia, Australia, Austria, Azerbaijan, Belgium, Bhutan, Bosnia-Herzegovina, Bulgaria, Burundi (1), Cambodia, Canada, Cape Verde, Chile, Colombia, Cook Islands, Costa Rica, Cote D'Ivoire, Croatia, Cyprus, Czech Republic, Denmark, Djibouti, Dominican Republic, Ecuador, Estonia, Finland, France, Georgia, Germany, Greece, Guinea-Bissau, Haiti, Honduras, Hungary, Iceland, Ireland, Italy, Kiribati, Liechtenstein, Lithuania, Luxembourg, Macedonia (Former Yugoslav Republic), Malta, Marshall Islands, Mauritius, Mexico, Micronesia (Federated States), Moldova, Monaco, Montenegro, Mozambique, Namibia, Nepal, Netherlands, New Zealand, Nicaragua, Niue, Norway, Palau, Panama, Paraguay, Philippines, Poland, Portugal, Romania, Rwanda, Samoa, San Marino, Sao Tome And Principe, Senegal, Serbia, Seychelles, Slovakia, Slovenia, Solomon Islands, South Africa, Spain, Sweden, Switzerland, Timor-Leste, Turkey, Turkmenistan, Tuvalu, Ukraine, United Kingdom, Uruguay, Uzbekistan, Vanuatu, Vatican City State, Venezuela
Abolizionisti ORDINARI
Bolivia, Brazil, El Salvador, Fiji, Israel, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Latvia, Peru
Abolizionisti DE FACTO
Algeria, Benin, Brunei Darussalam, Burkina Faso, Central African Republic, Congo (Republic), Eritrea, Gabon, Gambia, Ghana, Grenada, Kenya, Korea (South), Laos, Liberia, Madagascar, Malawi, Maldives, Mali, Mauritania, Morocco, Myanmar, Nauru, Niger, Papua New Guinea, Russian Federation, Sri Lanka, Suriname, Swaziland, Tajikistan, Tanzania, Togo, Tonga, Tunisia, Zambia
MANTENITORI
Afghanistan, Antigua and Barbuda, Bahamas, Bahrain, Bangladesh, Barbados, Belarus, Belize, Botswana, Cameroon, Chad, China, Comoros, Congo (Democratic Republic), Cuba, Dominica, Egypt, Equatorial Guinea, Ethiopia, Guatemala, Guinea, Guyana, India, Indonesia, Iran, Iraq, Jamaica, Japan, Jordan, Korea (North), Kuwait, Lebanon, Lesotho, Libya, Malaysia, Mongolia, Nigeria, Oman, Pakistan, Palestinian Authority, Qatar, Saint Christopher & Nevis, Saint Lucia, Saint Vincent & Grenadines, Saudi Arabia, Sierra Leone, Singapore, Somalia, Sudan, Syria, Taiwan, Thailand, Trinidad And Tobago, Uganda, United Arab Emirates, United States Of America, Viet Nam, Yemen, Zimbabwe
NOTE
1. Il Burundi ha abolito la pena di morte il 22/11/2008
lunedì 18 gennaio 2010
Haiti, una catastrofe non solo naturale
Le immagini di Haiti devastata non dicono per intero il disastro, come quasi sempre accade nelle grandi calamità naturali. Dicono il punto terminale di una storia lunga, accorciandola e sforbiciandola d’imperio.
Ritraggono la tragedia ignorando le tragedie già avvenute: tremando, la terra le inuma ancor più profondamente. Raffigurano in modi sconnessi lo sguardo di un bambino salvato, struggente di bellezza, e il fulgore tremendo dei machete impugnati da superstiti a caccia di cibi, acqua, medicine. Orrore, bellezza, empatia, discordia: sono frammenti caotici di un tutto inafferrabile. Sono istantanee, e ogni istantanea è la punta di iceberg che restano inesplorati. Vediamo solo questa punta, commossi da eventi estremi. Facendo uno sforzo sentiamo l’odore di morte, descritto dai reporter. La base dell’iceberg, quel che viene prima del sisma, s’inabissa sotto le macerie con i morti. È il terribile destino di parole come umanità, soccorsi umanitari, guerre umanitarie: parole cui si ricorre in simili emergenze e che cancellano la storia, eclissano le responsabilità dei grandi e dei piccoli, dei singoli e delle autorità pubbliche. Parole che narrano una catastrofe solo naturale, non anche umana e politica. Per questo è così prezioso il giornalismo scritto. La televisione mostra solo un pezzetto di realtà, più o meno bene (i telegiornali italiani meno bene della Bbc).
Twitter cattura l’urlo di Munch. Solo lo scritto ha la respirazione lenta della storia. Solo lui può dire quel che era prima del punto terminale, e come possa succedere che l’acme sia questo e non un altro, se possibile meno esiziale.
Le fotografie delle catastrofi sono sempre in qualche modo taroccate. Ci viene «rifilata» una realtà, contorta magari inconsciamente. Privilegiando un riquadro e trascurandone altri falsifichiamo l’immagine, come ben spiegato in un blog attento alle manipolazioni visive (G.O.D., Ghostwritersondemand): ci lamentiamo dei trucchi, «ma siamo noi i grandi rifilatori». Noi che aggiustiamo le foto dei cataclismi, i reportage, trasformando individui e popoli in nuda umanità indistinta alle prese con la natura e sconnessa dalla pòlis. Foto e telecamere mostrano la mano che soccorre, non quella che ha distrutto e aumentato la vulnerabilità d’un Paese. Denunciano la natura matrigna della natura, non della politica; l’eclisse di Dio, non dell’uomo imputabile. Basta leggere su La Stampa i due articoli scritti da Lucia Annunziata, il 14 e 16 gennaio, per scoprire dietro l’Ultimo istante e l’Ultimo uomo una miserabile storia fabbricata dai politici.
Qualcosa in realtà l’intuiamo, osservando i filmati trasmessi dai Caraibi. Sembra di vedere il bastimento di schiavi neri in fuga dall’Africa, che dopo essersi ammutinati sequestrano nel racconto di Melville il comandante Benito Cereno e si autogovernano con crudeli leggi del taglione: la nave si chiama San Dominick, ai nostri tempi Haiti. E proprio a Haiti Melville pensava: il primo luogo dove gli schiavi neri si liberarono negli Anni 90 del Settecento, inneggiando sotto la guida del leggendario Toussaint L’Ouverture alla rivoluzione francese. Pensava alla grandezza delle rivoluzioni e alle rovine che provocano quando perpetuano il tumulto e non si danno leggi stabili. Haiti somiglia a quella nave, divenuta isola.
Anche a Port-au-Prince, come nel naviglio San Dominick, regna l’anomia che secerne despoti. Chi guarda il dramma nei Caraibi non vede autorità locali, che tengano ordine. Non vede poliziotti né ministri haitiani, ma solo potentati e organizzazioni esterni. L’assenza di immagini parla più di quelle esibite, anche qui.
La storia occultata sotto la punta dell’iceberg eccola: è un inarrestabile sanguinario regolamento di conti fra cleptocrazie e fra mafie che oggi usano l’isola per i traffici di droga. È fatta di un’emancipazione gloriosamente iniziata e mai finita, perché sempre ha preferito le dittature generate dall’anarchia rivoluzionaria alle istituzioni che durano. I geologi dicono che identici terremoti, in Paesi ben amministrati, non seminano morte sì vasta. Lo sostiene la sismologa Kate Hutton: vent’anni fa, un terremoto di eguale forza colpì il Sud di San Francisco. Fece 63 morti, non 100-200.000 come a Haiti.
La mano dello Stato non si vede a Port-au-Prince perché non c’era neanche prima, se mai c’è stata. È il motivo per cui sono nate baraccopoli così cadenti e indifese a Port-au-Prince, scrive la scrittrice Amy Wilentz: se i morti son tanti è perché l’agricoltura, degradata, ha spinto migliaia di contadini a inurbarsi negli slum di quella che veniva chiamata Perla delle Antille. I terremotati abruzzesi lo sanno, pur non avendo subito un sisma analogo. Se le case non fossero state costruite con la sabbia, se lo Stato avesse contrastato le speculazioni mafiose, il sisma sarebbe stato diverso: cataclismi dello stesso tipo in Giappone non fanno morti.
Anche dietro la mano internazionale che corre in aiuto, anche dietro quella di Obama, c’è una lunga storia di peccati di omissione e di inani interventismi. Scrive il quotidiano Independent che occorre una «politica globale delle catastrofi». Ma anche questi appelli sono foto che ci rifiliamo a vicenda. Il disfarsi di Haiti rivela ed esige di più: rivela che aiuti umanitari e allo sviluppo vanno ripensati, perché fallimentari, e organizzati prima dei cataclismi. Fallimentari furono in primis gli interventi stabilizzatori americani, specialmente di Clinton. Washington tutto ha fatto, impossessandosi nella sostanza dell’isola, tranne rafforzare il suo Stato, le sue infrastrutture: ha installato dittatori, poi li ha cacciati, poi re-insediati (è il caso del sacerdote-presidente Aristide, negli Anni 90) senza mai scommettere sulle capacità locali di rendere l’isola meno vulnerabile ai ricorrenti sismi e uragani (con case meno cadenti, quartieri meno malavitosi, politiche del territorio più affidabili). Da un secolo, Washington «manda alternativamente nell’isola marines e spedizioni di aiuti umanitari - senza mai salvarla. (....) Haiti è un neo purulento sul volto di due delle più luminose pagine di storia del nostro mondo: la rivoluzione francese e quella americana» (Lucia Annunziata, La Stampa 14-1-10).
Lo strazio umanitario ha questo di peculiare: cancella ogni errore, di governi locali o di potenze esterne o di mafie. Mette in scena un male interamente naturale, che fa tabula rasa della storia. Non a caso lo chiamano Apocalisse: parola da evitare, perché nell’Apocalisse non c’è più modo di correggersi. O gli danno il nome di male assoluto, estirpandolo dalla catena storica delle causalità e fantasticando globali empatie umane che oltrepassano la politica. Il racconto di Kleist sul terremoto del Cile racconta il naufragare di leggi e responsabilità. Quando l’uomo è solo di fronte alla natura non resta che il fato, e «tremendo appare l’Essere che regna sopra le nubi»: «Pareva che tutti gli animi fossero riconciliati, dopo che v’era rintronato il colpo spaventoso. Nella memoria non sapevano risalire più in là di esso».
Impietoso, Kleist racconta come la memoria si vendichi, nel mondo non immaginario ma reale. Basta un attimo e la riconciliazione si spezza, proprio come a Haiti: nel mondo reale ci sono i tumulti, i machete, le guerre per il cibo, l’assenza di polizia locale e di Stato.
L’umanitario fa parte della modernità rivoluzionaria come la fotografia e la Tv. Il suo sguardo si fissa sull’ultimo attimo: «Nella memoria non risale più in là». Urge invece risalire, far politica ricordando: anche su scala mondiale. Dice Kafka che bisogna «inoltrarsi nel buio con la scrittura, come se il buio fosse un tunnel». L’immagine fotografica livella ogni cosa, del tutto ignara che ogni buio è un tunnel, anche quando a prima vista pare piatto.
TRATTO DA
http://temi.repubblica.it/micromega-online/haiti-una-catastrofe-non-solo-naturale/
Haiti, storia di golpe e cataclismi
Fu nel 1794 la prima svolta politica per Haiti, quando un ex schiavo, Toussaint Louverture, alleato dei francesi, ricacciò nella parte orientale gli spagnoli, per invaderla e liberarla nel 1801. Tre anni dopo, il generale Jean-Jacques Dessalines proclama l’indipendenza di Haiti, che divenne la prima repubblica mondiale governata da neri. Ma qui inizia un percorso destinato a trascinare nella dittatura il piccolo stato caraibico. Dessalines si autoincorona imperatore e stermina i bianchi rimasti nella nazione. Ucciso in un’imboscata, Dessalines lascia in eredità una guerra civile che si conclude solo nel 1849, quando la metà orientale dell’isola si dichiara indipendente col nome di Repubblica Dominicana. Nel XX secolo entrano in gioco anche gli Stati uniti, che nel 1915 invadono l’isola, confiscano i depositi d’oro, riorganizzano la costituzione e sciolgono l’esercito.
Gli Usa lasciano Haiti nel 1934, quando nell’isola la divisione tra neri e mulatti raggiunge il livello di guardia. Nel 1956, elezioni palesemente truccate portano al potere Francois Duvalier, detto "papa doc". La parte mulatta della popolazione rifiuta l’elezione e Duvalier assolda quelli che verranno chiamati "ton ton macoute", dal nome di un personaggio mostruoso delle fiabe, delinquenti pagati per uccidere gli oppositori del regime. Nel 1971, alla morte di Duvalier, sale al potere il figlio, "baby doc" Jean Claude, che continua la politica di repressione violenta degli oppositori. L’unica possibilità rimasta a Haiti, il turismo, crolla negli anni Ottanta, quando la repubblica viene considerata ad alto rischio per il virus dell’aids. Duvalier è costretto all’esilio e Haiti vive un periodo segnato da colpi di stato militari, che portano al potere di volta in volta Henri Namphy, Prosper Avril eil giovane prete Jean-Bertrand Aristide. Un altro golpe, nel 1991 con migliaia di morti, costringe Aristide alla fuga dall’isola. Vi ritorna, tre anni dopo, protetto da Jimmy Carter, presidente Usa. L’uragano Georges del 1998 aggiunge morti e danni a una nazione sempre più povera, prima della fuga nella Repubblica Centrafricana di Aristide, accusato nel 2004 di avere atteggiamenti simili a quelli di un dittatore, e prima del sisma di pochi giorni fa.
TRATTO DA http://www.vivereinarmonia.it/attualita/speciali/articolo/haiti-storia-di-golpe-e-cataclismi.aspx
Haiti: garantire l’accesso alle cure agli abitanti delle bidonville di Port au Prince è una necessità.
In occasione della chiusura delle attività a Cité Soleil, MSF lancia un appello alle autorità haitiane e alla comunità internazionale.
18/12/2007
Port au Prince, 18 Dicembre 2007 - Medici Senza Frontiere (MSF) lancia un appello alle autorità haitiane e alla comunità internazionale affinché sia garantito l’accesso alle cure per gli abitanti dei quartieri di Cité Soleil e Martissant, quartieri estremamente disagiati della capitale haitiana Port au Prince.
Questo appello è stato lanciato in occasione della presentazione dei risultati raggiunti da MSF nei progetti in questi due quartieri e dell’annuncio della chiusura delle attività di MSF a Cité Soleil.
Nel luglio 2005 MSF aveva avviato un programma a Cité Soleil per portare aiuto alla popolazione intrappolata nelle violenze dovuto agli scontri tra gruppi armati locali e truppe ONU. I civili sono state spesso le prime vittime di questi scontri. MSF ha offerto a Cité Soleil il suo appoggio a due strutture del Ministero della Salute per assistere la popolazione che a quel tempo viveva dentro una vera e propria enclave.
Quando MSF ha iniziato il progetto le uniche due strutture sanitarie presenti, il centro di salute primaria di Chapi e l’ospedale Choscal, erano praticamente chiuse ed erano state abbandonate a causa dell’insicurezza.
Da luglio 2005 alla fine di novembre 2007 la presenza continuativa e mai interrotta delle equipe di MSF, anche in occasione dei combattimenti più intensi, ha permesso di effettuare in tutto 72mila consultazioni al centro di salute primaria di Chapi e 32mila all’ospedale di Choscal, di questi oltre 13mila pazienti sono stati ricoverati. Oltre a ciò 5500 donne hanno partorito a Choscal e sono stati effettuate 3mila interventi chirurgici di cui 1800 urgenze. Su un totale di 579 feriti da arma da fuoco il 90% sono stato curati tra il luglio 2005 e la fine del 2006. MSF ha inoltre investito per riabilitare le due strutture.
Da aprile 2007 la situazione a Cité Soleil è enormemente migliorata. Nessun ferito da arma da fuoco è stato ricevuto all’ospedale di Choscal, e la popolazione del quartiere non vive più una situazione di enclave. Per questo le attività di MSF a Cité Soleil termineranno il 31 dicembre 2007.
Per garantire l’accesso alle cure alla popolazione locale sono ora necessari interventi strutturali di lungo termine. MSF è un’organizzazione medica specializzata nelle urgenze e di fronte alla nuova situazione ha deciso di passare progressivamente le attività al Ministero della Salute haitiano. La comunità internazionale deve dunque sostenere gli sforzi delle autorità haitiane.
“Oggi l’insicurezza non può più essere una scusa per il non intervento da parte di attori statali e non”, afferma Loris De Filippi, responsabile per i progetti di MSF Italia ed ex capo missione ad Haiti. “Nonostante questo gli interventi nel campo sanitario sono rari a Cité Soleil. Noi chiediamo alle Nazioni Unite e ai grandi donatori di sostenere gli sforzi delle autorità haitiane per garantire cure di qualità alla popolazione”.
A dicembre 2006 MSF ha aperto un progetto a Martissant, un quartiere dove la violenza quotidiana e l’assenza di strutture sanitarie privano la popolazione dell’accesso alle cure. Secondo un’inchiesta realizzata da MSF nel periodo compreso tra gennaio 2006 e luglio 2007 quasi un caso di morte su quattro a Martissant era legato a episodi di violenza.
MSF ha quindi aperto a dicembre 2006 un centro d’urgenza a Martissant. A luglio 2007 MSF ha inoltre allestito un sistema di cliniche mobili nel cuore dei quartieri di Martissant precisamente a Ti Bois, Grand Ravine, Bolosse e Barreu. Attualmente il centro d’urgenza assiste une media di 60 pazienti al giorno, di cui il 12% sono vittime di violenza. Ogni giorno oltre 12 pazienti vengono riferiti ad altre strutture, principalmente gli altri ospedali della città in cui lavora MSF.
Le equipe mediche all’interno delle cliniche mobili offrono cure mediche di base a circa 400 pazienti al giorni.
“L’esperienza di MSF a Martissant mostra che è possibile e indispensabile offrire cure mediche a una popolazione stimata in diverse centinaia di migliaia di persone che vivono in un’area considerata come zona rossa”, continua De Filippi. “E’quindi indispensabile che le autorità haitiane, con il sostegno della comunità internazionale, si adoperino per realizzare strutture sanitarie nel cuore di questo quartiere per garantire un vero accesso alle cure per la popolazione di Martissant”.
Nel 2008 MSF continuerà a impegnarsi per assistere le popolazioni vulnerabili della capitale haitiana: le attività di MSF si concentreranno nel quartiere di Martissant, all’ospedale traumatologico della Trinité, al centro di riabilitazione di Pacot e alla maternità di Jude Ann.
Foto di Pep Bonet
TRATTO DA http://www.medicisenzafrontiere.it/msfinforma/comunicati_stampa.asp?id=1608
SCHOK INPUT
Loro vivono nella foresta, liberi…liberi…liberi…
E noi? Noi siamo liberi?
SRM